Architettura e democrazia by Settis Salvatore

Architettura e democrazia by Settis Salvatore

autore:Settis, Salvatore [Settis, Salvatore]
La lingua: eng
Format: epub
pubblicato: 0101-01-01T00:00:00+00:00


È venuta l’ora di sfidare i confini difficili dentro e intorno alla città, ripudiando il pensiero unico di una «modernità» senza immaginazione che si riconosce nelle icone alla moda del grattacielo e della megalopoli. Di vedere nelle città, nei paesaggi, nell’habitat degli umani, nello spazio non una merce passiva da sfruttare ma il vivo scenario di una democrazia futura.

IV.

Eine zweite Natur

L’architettura fra città e campagna

Fra i processi in atto nel nostro tempo, che tendiamo a leggere solo in termini di progresso tecnologico e di globalizzazione economica, forse nessuno ha conseguenze tanto profonde sulla felicità individuale e sulla forma della società quanto la rivoluzione dei confini urbani. Come ho cercato di mostrare nel capitolo precedente, uno sviluppo confuso e apparentemente incontrollabile segna un mutamento radicale: possiamo descriverlo riassuntivamente come la morte dei confini della città e la vittoria dei confini nella città. La città storica fu concepita per millenni in Europa secondo una forma urbis ricchissima di varianti, ma sempre entro alcuni caratteri ricorrenti: fra questi, il perimetro delle mura che ne segnava i limiti e il graduale, armonico trapasso dallo spazio urbano alla campagna attraverso una fascia periurbana doppiamente orientata (verso la città e verso la campagna). Pensare in questi termini la città storica in un’epoca, la nostra, che ne promuove il degrado, la marginalizzazione e talora la devastazione non dev’essere, tuttavia, un esercizio della memoria o (peggio ancora) della nostalgia, né presuppone la condanna di ogni trasformazione della forma urbana. Al contrario, la città storica può e deve essere una sorta di «macchina per pensare» il nostro tempo, con la capacità analitica (che solo la dimensione storica può donare) di riconoscere, negli sviluppi in atto, quanto riteniamo favorevole al ben vivere delle generazioni future e quanto, invece, piú o meno platealmente vi si oppone.

Per spiegarmi con un esempio addotto da Jared Diamond nelle sue lezioni romane del 20151, in una società tradizionale e «arretrata» come quella di Papua - Nuova Guinea, nel 1961 erano ignote le malattie cardiache, il diabete e l’obesità, eppure la durata media della vita non superava i cinquant’anni. Oggi quel Paese si è fortemente modernizzato (tecnologia, trasporti, alimentazione) e la durata media della vita si sta lentamente allungando, ma i diabetici sono il 37 per cento della popolazione (sette volte piú che in Italia), gli infarti frequentissimi, l’obesità assai diffusa; la violenza urbana, prima sconosciuta, è ora dilagante, e colpisce in particolare i due terzi della popolazione femminile, con un’intensità assai maggiore nei quartieri piú derelitti (anche qui ben distinti da quelli relativamente prosperi). Dobbiamo dunque rimpiangere la società tradizionale e propugnarne un ritorno, peraltro improbabile? Certo che no: ma dobbiamo guardarci dal prendere i fenomeni piú negativi, dall’obesità alla violenza urbana, come «conseguenze necessarie» della modernizzazione, accettandole passivamente. A Port Moresby come in Europa, dobbiamo distinguere il grano dal loglio, gli sviluppi positivi dagli effetti negativi, «vedere» la forma della città e della società del passato in controluce su quella del presente: un esercizio della mente indispensabile per poter pensare il futuro, per poterlo costruire senza perdere i vantaggi conseguiti, ma anche senza subire passivamente gli svantaggi.



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